Secondo le stime della comunità economica internazionale il Pil cinese crescerà, nel 2011, ‘appena’ del 9%. Si tratta senza alcun dubbio di un’espansione straripante: più del quadruplo rispetto agli States (+2% circa) e molto superiore al tasso italiano, cronicamente ancorato a percentuali di tipo ‘zero-virgola’. Tuttavia, se si confronta il dato attuale con quello registrato l’anno scorso (+10,4%), si nota un rallentamento che deve quantomeno far riflettere sulla sostenibilità del modello di crescita adottato dall’establishment della Repubblica Popolare.
La criticità principale del modello può essere ricondotta all’eccessiva export-dipendenza di Pechino: le esportazioni ‘pesano’ il 40% della crescita complessiva, dunque le difficoltà dei principali Paesi occidentali e la conseguente riduzione della domanda estera hanno prodotto effetti restrittivi.
Lo scenario descritto ha spinto il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ad affermare che “i motori del rapido emergere della Cina sono a corto di vapore”. Dalle colonne del Financial Times (The big questions China still has to answer, 1° settembre 2011), Zoellick ha lanciato il suo appello affinché il Dragone sposti gradualmente, ma con consapevolezza, la sua crescita su consumi e investimenti interni.
Nell’articolo citato, il presidente dell’istituto di assistenza allo sviluppo ha evidenziato alcuni limiti dell’industria cinese, quali la contrazione della forza lavoro (dovuta all’invecchiamento della popolazione) e le ridotte prospettive di una produzione a basso valore aggiunto e ha delineato le ulteriori sfide che il Paese asiatico si trova ad affrontare, tra cui “il grave degrado ambientale, le disuguaglianze in aumento, l’uso intensivo di energia e le emissioni incontrollate di carbonio – un settore dei servizi sotto-sviluppato – e l’eccessivo affidamento ai mercati esteri”.
L’opportunità di un’analisi critica e propositiva circa la situazione economica di Pechino si fonda, secondo Zoellick, sull’importanza della crescita cinese come “fonte di forza nella crisi” e sulla rilevanza strategica dell’economica del Celeste Impero. Infatti, “se entro il 2030 la Cina raggiungesse un reddito pro capite di 16.000 dollari, l’effetto sull’economia globale equivarrebbe a quello di aggiungere quindici Corea del Sud attuali”. Inoltre, una Cina in grado di affiancare efficacemente gli Usa e di sostituirli (in termini di domanda di beni stranieri) nelle fasi in cui tale economia si dovesse trovare in ciclo negativo, gioverebbe all’intero sistema economico mondiale.
Infine, il presidente della Banca Mondiale ha ribadito la questione-chiave della transizione della Repubblica Popolare verso un’economia di mercato, asserendo che “il programma generale deve includere la ridefinizione del ruolo dello Stato e lo Stato di diritto, l’espansione del settore privato, promuovere la concorrenza e l’approfondimento delle riforme dei mercati fondiari, del lavoro e finanziari”. Insomma, il vascello cinese potrà andare lontano solo se le sue vele saranno gonfiate da dolci venti di rivoluzione liberale!
