Al  di là delle forti emozioni che ha suscitato la tragedia dell’11 Settembre 2001 ha avuto come altra conseguenza il fatto di aver dato luogo a una lotta senza pari contro il terrorismo islamico. Ciò ha portato non solo all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, ma anche all’adozione di misure di controllo, spesso giudicate liberticide, ma sicuramente efficaci. E’ ormai ammesso quasi all’unanimità, che per la nebulosa Al-Qaeda, gli ultimi dieci anni sono stati costellati da perdite al contempo simboliche e clamorose, e dalla considerevole riduzione della sua capacità di nuocere al nemico, impersonato dalla potenza statunitense. L’uccisione di Osama Bin Laden, il 2 maggio scorso ne è la dimostrazione. Ma per ciò che riguarda il continente africano e più in particolare per la zona del Sahel, non possiamo lasciarci andare a grandi trionfalismi.

C’è una vasta zona del Sahel comunemente chiamata ‘il Campo’. Questa vasta distesa desertica, dove le rigorose condizioni climatiche hanno cacciato la popolazione che si divide Mauritania, Mali, Niger e Algeria, è effettivamente fortemente desiderata da una nuova tipologia di militanti di Al-Qaeda. Si ha l’impressione che tra il Sahel e i vecchi rifugi storici del terrorismo islamico asiatico, i ruoli si siano invertiti, come in un sistema di vasi comunicanti. In Afghanistan, Pakistan, Yemen, Al-Qaeda sembra indebolirsi ogni giorno di più e la ‘nebulosa’ sembra invece crescere ulteriormente nella zona del Sahel. Una situazione paradossale, ma giustificabile. Dopo essere stato sottoposti a insostenibili pressioni da parte dei militari e dei servizi segreti americani, con la benedizione di tutti gli stati occidentali, i militanti jihadisti di Al-Qaeda ancora in libertà, sono stati obbligati a disertare le montagne, le zone tribali afghane e pakistane ed entrare in una sorta di ibernazione labile e imprevedibile. E’ stato allora che altri militanti provenienti da gruppi come il GSPC algerino (Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento, conosciuti per azioni terroristiche in Cecenia, Afghanistan, Iraq, Algeria), non lontani dalla ‘filosofia di vita’ di Bin Laden e sofferenti di una crisi di legittimità, si sono fatti avanti perché il ‘marchio’ Al-Qaeda avrebbe restituito loro la credibilità perduta. Un’opportunità che l’organizzazione terrorista planetaria non poteva lasciarsi sfuggire, soprattutto perché il contesto la obbliga alla decentralizzazione e alla preparazione di attentati minori, ma strategicamente importanti per la loro ripercussione mediatica. Il Patto di fedeltà dei gruppi magrebini con Al-Qaeda si traduce con la nascita, nel 2007, di Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico). Una seconda vita pragmatica, ma capace di far male là dove meno ce lo si aspetta.

La crisi libica ha, senza dubbio, permesso ad Aqmi di approvvigionarsi in armi presso i diversi gruppi jihadisti libici. Sotto la spinta di Abu Attiya, uomo di fiducia di Zawahiri, Aqmi  starebbe consolidando i rapporti con gli Shebab somali per creare un asse Aqmi-Shebab-Aqpa (Al Qaeda Penisola Araba), e cioè Maghreb-Sahel-Somalia-Yemen e ha sedotto la setta nigeriana di Boko Haram. Grazie alla confusione che regna in Libia, Aqmi cresce parallelamente alle nuove dinamiche volute da Zawahiri e correlate alle turbolenze che pervadono il mondo arabo, chiamate forse con troppa leggerezza ‘primavera araba’. L’Algeria, che intende giocare un ruolo da leader nella regione, ha convocato il 7 e 8 settembre scorsi, una Conferenza per la Cooperazione antiterroristica tra i Pesi del Sahel e i loro partner esterni (USA e UE). Uno degli obiettivi principali è combattere le cause profonde della povertà, che favorisce il reclutamento dei terroristi. Certo, fino a ora non sembra che le autorità locali siano riuscite a garantire l’integrità territoriale dei loro rispettivi Paesi. ‘Il Campo’ è e rimane in mano ad Aqami.

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