E’ raro che scriva, per precisa scelta professionale, sulle pagine del nostro giornale preferendo piuttosto il lavoro “ai fornelli” – quello invisibile ma pur sostanziale in una testata giornalistica – lasciando spazio a redattori e opinionisti e dedicandomi quasi esclusivamente all’ideazione di “piatti e portate”. Insomma, mi immagino con il cappello da chef insieme alla mia esigua “brigata di cucina”, lasciando agli altri collaboratori l’esposizione in sala da pranzo.
Stavolta, però, ho percepito l’impellente desiderio di battere sulla tastiera alcune considerazioni e proprio sull’esposizione, stavolta mediatica, di cui alcuni – troppi – colleghi della stampa fanno uso sconsiderato.
E’ di queste ore la sentenza di secondo grado di un processo ormai più noto come “del gancetto di reggiseno”. Non entro nel merito della Sentenza perché non mi compete ed anche perché, qualora ne avessi l’insensato impulso, se ne conosceranno le motivazioni fra tre mesi. Leggo invece dalle cronache che cinquecento colleghi si sono accreditati in un Tribunale umbro per seguire le fasi del dibattimento in attesa del verdetto e con uno spiegamento di mezzi che chi è del mestiere usa definire “alla Ben Hur”.
Sono ormai anni che il fatto delittuoso ha avuto il suo epilogo con la morte di una giovane ragazza. Ma sono pure ormai anni che la stampa vi dedica “fiumi d’inchiostro” (si sarebbe detto una volta), quintali di piombo fuso nelle linotype (qualche anno fa) ed oggi miliardi di byte.
C’è da chiedersi cosa spinga certa stampa a tracimare verso la “vocazione al portierato” (con l’ovvio e assoluto rispetto per la categoria e per il mio fido e colto Urbano, vero insostituibile comandante di Palazzo) ma anche non-più-giornalisti passati ai lustrini del talkshow che su un “gancetto di reggiseno” riescono ad imbastire inutili ore di trasmissione raccogliendo le vacue opinioni di showgirl, di ex magistrate passate per le stanze delle istituzioni, di criminologhe che trasudano botulino, di sconosciuti opinionisti senza opinione, di ex giovani psicoanalisti dal ciuffo sbarazzino, di velleitarie romanziere del crimine e tutti intorno all’immancabile plastico dell’ipotetica scena del crimine.
Abbiamo il diritto di essere informati? Certo che lo abbiamo ma informati dei fatti sostanziali e non di dettagli al limite del morboso o delle inutili opinioni di improvvisati personaggi che discettano sul nulla. Quale è il valore aggiunto di questo circo mediatico? Quale il beneficio che possiamo trarne? Nulla, solo l’occasione di sentenziare senza diritto e autorevolezza, allo stesso modo di quando, durante i mondiali di calcio, ci riteniamo tutti allenatori della Nazionale. Insomma, l’alimentare un passatempo, una sorta di gioco di società dove siamo autorizzati a “sentenziare” su tutto e tutti.
Un effetto invece potrebbe ripercuotersi proprio sull’opinione di quelli davvero chiamati a sentenziare nella realtà con decisioni che investono il futuro di un imputato. L’opinione (e nel caso di una Corte, il giudizio) si forma attraverso l’interazione del pensiero proprio, degli altri e della comunità di cui facciamo parte. L’applicazione della Legge non è mai meccanicistica, ma passa attraverso la valutazione di molte variabili anche strettamente individuali riferite ai fatti e modellate dal convincimento di chi giudica. Ecco allora l’attuale “potere invasivo” dei mass media capaci di incidere pesantemente sul pensiero collettivo.
Tutto dipende non dal mestiere di giornalista in sé ma da noi, da chi lo fa. Una volta c’era Montanelli che amava scrivere epitaffi ironici e spesso sarcastici per i suoi amici e ne scrisse uno anche per sé: “Genio compreso, spiegava agli altri ciò che egli stesso non capiva”.
Altri tempi, altro mestiere, altra gente. Ed anche per questo l’immagine che accompagna queste righe è una vecchia Lettera 22 e non certo per nostalgia di quei tasti – altrimenti non saremmo qui sulla Rete – ma per affermare che, al di là dell’evoluzione degli strumenti, questo mestiere non deve tracimare verso il trash.
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