In una scuola del frusinate, vicino a Roma, è caduta una lavagna su un banco, per involontaria opera di un bimbo disabile. Nell’aula non era presente l’insegnante di sostegno, non perché accidentalmente si fosse allontanata, ma perché in quella scuola, nonostante la richiesta, non è mai stata assegnata. Il bimbo disabile, come gli altri 10 bimbi disabili presenti in quella scuola, usufruisce della legge 104 del 1992. Ma la scuola ancora aspetta che gli insegnanti vengano nominati e le lezioni sono iniziate già da un mese.
Inoltre, il numero globale degli insegnanti di sostegno nominati dal Ministero (la legge prevedrebbe un insegnante ogni due studenti disabili) è decisamente inferiore rispetto all’aumento di presenze di alunni disabili nelle scuole italiane. Ogni classe, in presenza di un alunno disabile, non dovrebbe superare per disposizione le 21 unità; invece, per effetto dei tagli di quest’ultima Finanziaria, le sezioni sono state accorpate, quindi le classi sono di fatto molto più numerose. Si deve pensare che il Ministero dia le direttive, spesso perfettamente ottemperanti alle regole del welfare, ma siccome poi le risorse finanziarie per la Scuola vengono gestite dalle Regioni, queste possono decidere di “infischiarsene” – a fronte delle esigue risorse in bilancio – e fare come gli pare.
Cosa succede allora? I genitori degli alunni disabili parcheggiati in un’aula sovraffollata e senza insegnante di sostegno che almeno gli sia di supporto e non li faccia giacere come uno “scaldasedia” – vedendo lesi i diritti fondamentali all’istruzione per i loro figli – vanno da un avvocato (o da una delle varie associazioni di tutela dei diritti del cittadino) e fanno causa. Ovviamente le vincono.
Cambia qualcosa? L’insegnante di sostegno spesso si materializza per incanto, ma intanto alla famiglia ed al ragazzo disabile, la scuola gli rende la vita quantomeno difficile, impedendogli di partecipare alle gite scolastiche (per presunte ragioni di sicurezza), foto di classe scattate senza inserire il disabile (casomai rovinasse l’immagine), e così via.
In tempi di crisi, tagli al bilancio e voti di fiducia – risicata – al Governo sulla Legge di Stabilità (nella quale già vi sono ulteriori tagli alla Scuola come alle Forze dell’Ordine e all’edilizia sanitaria), qualcuno ritiene che forse se ne potrebbe anche fare a meno di spendere le pur esigue risorse per istruire/formare disabili (che poi hanno pure già “tanti” privilegi). Tanto poi chissà se mai lavoreranno. E’ questi il dubbio che l’attuale Governo, con campagne pubblicitarie demagogiche (falsi invalidi), accordi con l’INPS e quant’altro, sta inculcando nella mente di molti.
Per cominciare, il diritto allo studio è universale. Se non vogliamo che un disabile diventi un peso economico per la società, prima di tutto dobbiamo garantirgli il diritto all’istruzione ed all’avviamento al lavoro, come sancisce in modo saggio la nostra Costituzione. E poiché ha ovviamente dei limiti, dobbiamo aiutarlo nel superamento di tali limiti, fornendogli le stesse chance di partenza degli altri nell’affrontare la vita. Questo farà di lui un “soggetto sociale” come tutti gli altri e gli darà l’opportunità di diventare, per le sue competenze, un soggetto produttivo nella società del domani: in un sistema economico che ci si auspica possa vedere realmente applicati libero mercato e libera concorrenza, diventa un valore.
I falsi invalidi. Le associazioni come la FISH e FAND (che rappresentano in sé le tante associazioni di disabili) sono quelle che per prime lottano contro le false invalidità (concesse, ricordiamocelo, per ricambiare favori o come voto di scambio), perché ledono i diritti degli invalidi veri e la loro stessa immagine accomunandoli nell’opinione comune a quelli falsi nel fascio degli “scrocconi”.
Le triple inchieste di accertamento dell’invalidità, spesso vessatorie, dell’INPS hanno poi evidenziato che i falsi invalidi (a cui la stampa per esigenze di “scoop” riserva grande risalto) in realtà sono numericamente molto inferiori agli invalidi veri e che tutto questo gran risparmio che il Governo avrebbe ottenuto con il loro “stanamento”, in realtà è molto esiguo e certamente assai inferiore alle altre voci di “spesa” in bilancio.
Se è ritenuta valida l’equazione “disabile quale peso sociale”, in un momento di crisi diventa quasi legittimo sottrargli alcuni supposti “privilegi”. Ma se invece si ragionasse in termini di “disabile quale elemento produttivo”, privarlo allora di certi diritti come una legittima istruzione/formazione, complicherebbe un bel po’ il teorema.
Quindi, ci si affaccia amaramente un dubbio: non è che si sceglie di tagliare fondi alle fasce più deboli solo per non rinunciare a qualche privilegio? Non è forse più facile indirizzare il dito accusatorio verso altri presunti “spreconi” della spesa pubblica tanto per confondere un po’ le acque?
Allora, si preferisce spendere soldi (pubblici) in cause promosse da genitori di disabili che vedono privati i propri figli del diritto di diventare un domani un soggetto produttivo (oltretutto pure contribuente). Per la cronaca, le cause vengono regolarmente vinte dai ricorrenti, i tribunali si intasano e lo Stato in alcuni casi perde ulteriore denaro pubblico per il risarcimento del danno.
Così ragiona e agisce chi ci rappresenta ora alla guida del Paese e nemmeno scelto da noi ma nominato grazie a quella legge elettorale nota – di nome e di fatto – come Porcellum.
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